Letteratura contemporanea: rassegna bibliografica (1943)

«La Nuova Italia», a. XIV, Firenze, maggio-giugno 1943, pp. 70-73, poi in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

[Recensioni a: Lirici nuovi. Antologia di poesia contemporanea, a cura di Luciano Anceschi (Milano, Hoepli, 1943); Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo, (Milano, Mondadori, 1943); Enrico Pea, Arie bifolchine (Firenze, Vallecchi, 1943); Pier Paolo Pasolini, Poesie a Casarsa (Bologna, Libreria antiquaria Mario Landi, 1942); Giovanni Battista Angioletti, Il giorno del giudizio (Firenze, Vallecchi, 1942); Enrico Morovich, Contadini sui monti (Firenze, Vallecchi, 1942); Alfredo Orecchio, Guardiani (Firenze, Vallecchi, 1942); Silvio D’Arzo, All’insegna del buon corsiero (Firenze, Vallecchi, 1942)].

Letteratura contemporanea: rassegna bibliografica

In questo momento di intensissima vita editoriale (tanto intensa da farci esitare tra piacere e diffidenza come ogni abbondanza morbosa) è affiorato anche il bisogno, veramente legittimo in mezzo a quelli illegittimi di ristampe d’ogni genere, di antologie d’ogni genere, di una antologia di poeti contemporanei dopo quelle ormai vecchie di Papini e Pancrazi, di O. Giacobbe (che poteva essere, ma non lo era, un quid simile dell’ottima, anche se indiscriminata nella sua abbondanza, Anthologie des poètes français contemporains del Walch). Mentre si annunziano quelle di Bo-Spagnoletti e di De Robertis-Gatto, Luciano Anceschi ha pubblicato da Hoepli una copiosa raccolta di poesie contemporanee (Lirici nuovi, Milano, 1942) sui cui criteri generali è veramente doveroso consentire: note biografiche e bibliografiche su ogni autore scelto, pagine tolte dai piú notevoli testi di critici contemporanei (Contini per Montale, Solmi per Saba ecc.), un brano del poeta stesso sulla poesia, una testimonianza cioè della sua poetica, e naturalmente un discreto numero di poesie scelte. E i nomi sono quelli che tutti ammetterebbero in un’antologia, anche se, in questo rigore di numerus clausus di venti eletti, ci sembri eccessiva generosità l’ammissione di alcuni nomi assai discutibili. Perché o la scelta è molto ampia, e allora c’erano molti altri candidati degni di ammissione, o si accentuava un rigido esame di poesia realizzata che avrebbe implacabilmente ridotto ad una dozzina scarsa il numero dei poeti nuovi. Ma noi siamo anche d’opinione che ogni raccolta di contemporanei ha sempre qualcosa di provvisorio, di non storicizzato, dato che il primo, brutale, ma spesso onesto storico è il tempo che fa spiccare i colori naturali e sbiadire le biacche e i rossetti. La scelta dei «lirici» era in questo caso certo facilissima perché l’enorme equivoco cui potevano andare incontro Falqui e Capasso nel loro Fiore cercando una lirica pura in tutta la storia della nostra letteratura non si poteva davvero verificare nella qualifica di lirici per i poeti contemporanei dato che in nessun caso, se non forse per Onofri, la poesia nostra si è presentata con intenzioni che superino l’intensa intimità personale che della linea ha costituito la tradizionale caratteristica. Sí che era anche a sua volta naturale la difesa contro ogni poesia-documento, poesia-retorica, come bene dice nella prefazione Anceschi. «Cosí in una verità altissima e leggera di lirica e fuori ormai da ogni polemica, sta la ragione delle esclusioni, delle scelte. Nulla s’è concesso ai “civili” Soloni, ai risentiti Teognidi, nulla alla grazia amabile di chi sa solo impugnare con garbo il suo fioretto, nulla al piacere (privato poi) dell’amor sensuale e pratico delle parole». Quanto alla scelta delle poesie il discorso si trasferirebbe in un esame critico-descrittivo di quelle opere poetiche e in una discussione sul metodo che ci sembra variare da poeta a poeta: scelta antologica del meglio come per Cardarelli, piú per «specialisti» come per Ungaretti dove alla discutibile Pietà potevano essere sostituite altre poesie piú realizzate. Ci limiteremo in linea generale ad osservare che il criterio tradizionale, che ha trovato la sua giustificazione teorica nel Croce, della scelta del piú poetico che unicamente conta in una storia di espressioni pure, e quello accennato da Anceschi, consistente in una scelta che permetta di «intuire tutto lo sviluppo di una poetica», vanno vicendevolmente integrati il piú possibile come ideale prospettiva di uno sviluppo storico e di un risultato assoluto.

Il primato fra le ristampe di poeti contemporanei, indispensabili per la rarità di molte opere quasi esaurite, spetta certamente alla ristampa delle opere di Ungaretti sotto il titolo Vita di un uomo, titolo impegnativo ed autobiografico secondo il motivo piú romantico e verboso di Ungaretti, che raggiunge il meglio dove il suo tono piú arso e meridionale si sfa in grazia musicale e dove la silhouette dell’«uomo di pena» si approfondisce in sostegno di ritmo vitale alla sua poesia. Sotto questo titolo ritornano Allegria (cioè Allegria di naufragi e Porto sepolto riuniti nell’Allegria 1931) e Sentimento del tempo (ristampa dell’ediz. Vallecchi 1939 e Novissima 1936). Ristampe integrali con alcuni interessanti ritocchi che vanno da «testoni dei brumisti» in «teste» (prevalere di una volontà ritmica su quella contenutistico-immaginistica) alla trasformazione di un intero pezzo (l’Africano a Parigi). Ma il quadro sostanzialmente non è cambiato e del resto considerazioni su questo nuovo strato e sui precedenti sono da rimandarsi a quando uscirà il terzo volume con le Poesie disperse e con l’apparato critico delle varianti dell’Allegria e del Sentimento a cura di De Robertis. Poi seguiranno anche in poesia le Traduzioni (già comparse nel ’36 ed. Novissima) e due nuovi volumi: Penultima stagione, Diario. Il foglio editoriale di Mondadori annuncia poi ben cinque volumi di prose Scritti di viaggio e di letteratura che certamente, malgrado la loro mole, occuperanno uno spazio assai piccolo nella nostra memoria di cose alte e poetiche.

Non è sempre facile giustificare il piacere di una rilettura accompagnata da un’inevitabile nostalgia per la relazione passata di lettura e il nostro atteggiamento spirituale. Perciò a dare notizia delle Arie bifolchine di Enrico Pea uscite quest’anno da Vallecchi (e ci piace anche il titolo nuovo cosí sollevato e lietamente intonato che ci indica il prevalere, a noi già chiaro, del tono sereno e gustoso di quelle poesie sugli spunti piú cupi e tormentati), dove sono raccolte le poesie che avevamo letto a varie riprese sino alla soglia della prima vocazione letteraria, si sente con piacere che teme di doversi dedurre per simboli di conoscenza intellettuale. «Per la via di Montignoso / seminato han pepestrino / ch’è semenza di rovina». Come ritornano trionfali ed amiche queste voci di un incanto tra sorridente e magico, queste voci native di un paese dove ogni cosa rustica è cosí nativamente civile! Ma la «favola» poetica di Pea ha un suo timbro cosí spiccato che ci guida da sé a superare il piacere della nostalgia. In mezzo a tante favole artefatte e create a trappola di coloro che temono il filtro potente e sottile della poesia nuova e corrono subito ad ogni surrogato di canto tradizionale, la favola poetica di Pea ha quella perentoria serietà letteraria e quella assorta saggezza umana che dà peso e colore concreto ad ogni parola, ad ogni apparente divertimento. Quel sapore di sacra rappresentazione e di istintiva religiosità («nulla voglio che tu non voglia») che supera nel meglio il compenso dilettantesco di un côté Figlia di Jorio misura continuamente la forza della cantilena (malgrado le sue influenze e le sue parentele ben piú che strapaese e «Selvaggio»), e la forza sensuale, ma non rapita dà un gusto piú che lirico alle parole, quasi l’avvio di un racconto, di una moralità: «nate avvogliate di seduzione». Parole, sia detto incidentalmente, che il Glossarietto di E. Falqui vuol ricondurre al loro terreno dialettale o alla creazione fantastica dell’autore ma che, nelle aggiunte al Lessico di Contini, ci sembrano a volte intuitive anche per il lettore non toscano ma provvisto di buone letture: come «carolare» per danzare e «rientrare in santo» che ha un esempio notissimo nella Mandragola.

Fra i tanti residui di vecchi linguaggi poetici va calcolato quello della poesia dialettale che trascina con sé nella maggior parte dei casi l’eco della sua adesione al verismo e alla canzonetta: piccoli drammi, cantati accenni descrittivi e nel peggior caso satire di costume. E difficilmente il linguaggio dialettale sale davvero a condizioni poetiche, a quella leggerezza di suoni cui lo condusse un Di Giacomo, a quella libertà ariosa che lo può far preporre come mezzo musicale piú variabile e colorito al linguaggio aulico nazionale: lontana d’altronde la cruda forza fantastica di un Porta e di un Belli. Nel Veneto, mentre a Trieste lavora ai suoi «colori» un poeta che fa tanto sentire la sua conterraneità con Saba, Virgilio Giotti, abbiamo ascoltato una voce friulana, che in certi limiti di fantasia, e d’altronde con certe pretese di avvicinamenti culturali pur abilmente celate, ci sembra dotata di freschezza e precisione musicale. Sono le Poesie a Casarsa di Pier Paolo Pasolini (Bologna, Antiquaria, 1942). Il dialetto adoperato ha già di per sé una sfumata apertura che l’autore stesso è ben lieto di additare: «L’idioma friulano di queste poesie non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla sulla sponda destra del Tagliamento» e che egli confessa volentieri di aver portato oltre le sue possibilità naturali per i suoi scopi poetici: «Inoltre non poche sono le violenze che gli ho usato per costringerlo ad un metro e a una dizione poetica». Afferrato, ma non medusato, come spesso avviene agli autori dialettali, dalla poeticità illusoriamente obbiettiva di parole di suono dolce e melodioso (e di traduzione vaga in figure di suono inaspettate) Pasolini ha composto in una trama sentimentale esperta di situazioni e di avventure della fantasia una serie di delicatissimi movimenti poetici tanto piú interessanti quanto piú astratti da intenti folkloristici e di spiegato racconto. Un esempio: «Fuga: Belzà tai mòns l’è dut un tarlupâ: tal plan rampít o mirie, jo sei bessôl. / Belzà tai mòns a’ plûf: in ta l’últime abbàde, o sère, jo so bessôl. Pai prâs sglovàs dal vint, al spún l’ôdor dal zinepri. Sciampàn: l’è timp dil à / Marie! ’a sighe la sisíle».

«Ormai sui monti (la traduzione è dello stesso autore) è tutto un lampeggiare: nella spoglia pianura, o meriggio, io resto solo. Ormai sui monti piove: nell’ultima schiarita, o sera, io resto solo. Pei prati spossati dal vento, punge l’odore del ginepro. Andiamo: è tempo di fuggire. Maria! grida la rondine». Dove si vede tra l’altro che la traduzione in lingua l’avvicina ad una sorta di modernissimo pascolismo, mentre l’espressione in dialetto mantiene al pezzo una poesia piú intensa, meno derivata, piú spiccatamente musicale.

Il giorno del giudizio di Angioletti (ristampato quest’anno da Vallecchi) è un libro che indubbiamente resiste pur essendo legatissimo agli anni in cui fu scritto, a quegli anni milanesi ed europei in cui i «saggi» tra discorsivi e fantastici sembrano la misura letteraria piú adatta ad esprimere la cronaca sentimentale ed intellettuale dei giovani scrittori. È forse questo suo sapore storico che ci ha fatto superare nel giudizio della memoria l’impressione di esiguità fondamentale del libro: fortuna affidata a pochi motivi quella di Angioletti, e a motivi non bene unificati, se non nel gusto di una linea piú secca e arabescata, che sensuosa e piena, e nella sua origine di fantasia intellettuale soffusa di un alone di malinconia lirica che può confermarsi piú sicura quando tende ad ironia. Piú calligrafico e quasi crepuscolare il primo pezzo I re, piú simile ad una cronaca zavattiniana il secondo nell’Uomo qualunque che per funzione e misura di linguaggio è senza dubbio il migliore di tutto il libro. E poi un pezzo, Settentrione, che vuole essere la chiave di questo mondo, la confessione del letterato, il pezzo che piú risente di quella storia cui accennavamo, e che individua Angioletti in un europeismo milanese, antistrapaesano e quindi in una poetica piú di fantasia d’intelligenza che non di sensibilità macchiaiola, pittorica: «Io guardo all’Europa. Al di fuori delle tradizioni italiane, per noi cittadini del nord, anche se lo rifiutano, c’è un altro destino. Europe illuminée. Nei versi di Valéry Larbaud, vi sboccia una immagine nuova e cara al mio cuore di cittadino senza rimedio. Europe illuminée». E mentre questa fantasia intellettuale si fa tutta arbitraria e monotona nella creazione di un personaggio (Amici all’osteria), è invece coerente, riuscita nello scherzo Pigrizia e nella vicenda condotta con mano tanto leggera de La fuga del leone. È perciò che il brano piú impegnativo, Il giorno del giudizio, ci appare, al di là dei primi passi felici nell’avventura e nel mistero, che rendeva indimenticabile quella sensazione di novità cosmica nell’ambito della città umana, eccessivamente prolungato e trascinato in svolazzi calligrafici, in un turgore stilistico che non è del migliore Angioletti, una prova semmai che attendeva uno sviluppo che non è ancora venuto.

Tra le prose di fantasia di recente pubblicazione vanno segnalati, tutti editi da Vallecchi, tre libri di giovani: E. Morovich, Contadini sui monti, A. Orecchio, Guardiani, S. D’Arzo, All’insegna del buon corsiero. Dal racconto, nel senso piú serrato e tradizionale, evadono tutti e tre, forse malgrado le loro intenzioni, per diverse vie d’uscita. Morovich, che conoscevamo soprattutto per i suoi raccontini da rivista, con il loro intento di catastrofe e paradosso, in un tessuto di racconto piatto e scheletrico, sembra in questo racconto lungo (terremo fede cosí alle distinzioni che ha fatto con tanta acutezza su «Primato» e «Letteratura» l’amico Antonio Russi?) riprendere il suo schema abituale, ma distenderlo, oltre che nella lunghezza di un intreccio piú complesso, in un impegno piú poetico che consiste non solo nel livellamento volontario, non realistico, ma surrealistico senza volerne indicare la presenza, degli avvenimenti mondani e di un sopramondo di morti tenuti in un riuscito limbo di vicinanza ai viventi, ed anche in una nozione piú essenziale dello stile. Se le prime pagine (d’altronde le piú ariose del libro) sembrano riprospettare quasi intenzioni malinconiche-umoristiche alla Zavattini, il pieno del libro meglio risponde a questo accordo stilistico che può diventare anche maniera di una evasione dalla narrazione piú calda e piú decisa. Maniera e limite dunque troppo ravvicinato di una fantasia per lo piú artificiosa.

Orecchio sembra poi un verghiano rinnovato, libero dal ritmo isolano realistico, e rinsanguato da un fermento sensuale di chiara origine moderna (da Lawrence in poi) e certo la cosa piú compiuta del volume è il primo racconto I guardiani che ha su quella linea una sua misura, un suo passo poetico apprezzabili. Ma poi il suo ritratto ci viene sconvolto dalle esperienze successive indicate per ora dal breve racconto In una stazione, in cui il narratore rinnega evidentemente il suo modulo di costruzione e si precipita in un linguaggio di liriche pretese attraverso l’allibito e il bizzarro che arieggia Landolfi e che ci sembra per ora sradicato e malamente gratuito.

All’insegna del buon corsiero di Silvio D’Arzo ci pone innanzi ad un esempio tipico di narrazione poetica, e di durata della memoria poetica distesa il piú possibile in vicende stilistiche pacate e raffinate: quasi un Bonsanti della prima maniera, ambizioso di un colore fantastico che sale da un gustatissimo rallentato in moduli pseudoottocenteschi: «Né c’era, nella sua voce che suonò fresca oltre il cortile, solo un ricordo di indulgente rimprovero, ma qualche cosa che pareva ricordare ad entrambi con muto patto: una sorta, ecco, di complicità innocente». I personaggi definiti da una cura di colori e di vicende, di suoni (Androgeo, il servo poeta dalla livrea color verde mela), l’avvenimento centrale del funambolo e la sua trasfigurazione nel maligno culminano nella scena veramente efficace in cui «l’uomo in viola», dopo la sua uccisione riappare svolando dal fico nella luce della luna «che andava immalinconendosi di verde». Ma certo questo culminare del libro in una scena non è poi una vera necessità di unità, e tutto il racconto rimane una serie di pezzi bagnati nella stessa atmosfera e validi come esercizi di prosa poetica. Una prosa interessante ma pericolosamente raggiunta nella sua calma calligrafica in cui si odora spesso il bruciaticcio dello sforzo, il compiacersi di un’esile fantasia in giri esageratamente morbidi e incantati.